
Mi piacerebbe parlare brevemente di un tema che vivo frequentemente,
quello dei controlli effettuati dalla Pubblica Amministrazione nei
progetti di educazione parentale. Nei corsi e nelle chiacchierate
fatti in pubblico e in privato ho sempre trattato di questo tema
perché ho avuto modo di misurare presto quanta difficoltà
producevano i controlli ai gruppi di famiglie ed educatori, creando
soprattutto una sensazione di illegalità e di impossibilità a
procedere.Ho sempre sostenuto che la legge non è ostativa in generale verso le attività sociali –
e tanto di più nei casi in cui il denaro è limitato e c’è molto
volontariato – e, in particolare, nelle attività che riguardano i
minori dove i servizi in realtà non coprono che la metà della
domanda da parte delle famiglie.Il problema è che il sistema dei controlli amministrativi viene gestito come un sistema
immunitario sociale dove la reazione è volta a stroncare sul nascere
quello che, nella mentalità di chi interviene, è potenzialmente
pericoloso per la collettività.Praticamente mai ho trovato persone attente a non limitare la libertà delle famiglie e
l’espressione dei cittadini, quasi sempre ho avuto a che fare con
pubblici ufficiali alla ricerca disperata della norma di
inquadramento delle attività sociali e completamente a digiuno di
elementari fatti pratici del no profit.
Ci sono interi capitoli della nostra vita quotidiana che non hanno un quadro
normativo applicabile perché le leggi che li riguardano
marginalmente sono semplicemente state pensate per fatti non proprio
collimanti con le diverse attività che possono nascere intorno agli
stessi argomenti. Esempi pratici?La somministrazione dei pasti legalmente è concepita per due categorie specifiche,
dentro casa e fuori casa: il “dentro casa” non ha bisogno di
niente a livello di inquadramento legale, il “fuori casa” di
tutto. Il problema è che il dentro casa è suscettibile di grandi
interpretazioni limitative e quindi qualcuno potrebbe concludere che
anche il panino che mangio al parco sia una sorta di atto
somministrativo…dipende da dove ho cucinato il panino e da chi ci
ha guadagnato nel farlo…pazzesco…La presenza di denaro nei percorsi di volontariato e del no profit: quasi tutti sono
convinti che, se c’è pratica non commerciale, non è possibile
prendere soldi o quasi impiegare denaro, se non nella strettissima
necessità del coprire le spese e la lotta qui, colpevoli i
commercialisti, è quella di dimostrare, pena la scorticazione, che
tutto è stato fatto nella più totale assenza di guadagno per chi
era presente alle attività…così muore qualsiasi attività
socialmente rilevante e vive solo quello che crea un ritorno
economico, anche se a danno dei contribuenti e dei meno abbienti, per
far rima…nessuno vede questo paradosso ma l’importante, nella
mentalità che incontro, è che la norma sia rispettata anche quando
arriviamo al paradosso del comma 22…la ricerca del senso diventa
disperata quando si rimane su questi livelli.Lavorare nelle attività non commerciali è formalmente proibito? No, fa parte delle
possibilità di praticamente ogni ente non commerciale…allora viene
vietato almeno ai soci…veramente sarebbe possibile a tutti purché
non rappresenti un meccanismo di redistribuzione indiretta di
utili…quindi sicuramente non i consiglieri dell’ente…si parla
di tutti i soci e non c’è discriminazione di sorta…ma almeno il
presidente sarebbe in evidente conflitto di interessi…il conflitto
di interessi nel terzo settore praticamente non c’è e comunque
riguarderebbe solo i casi in cui almeno un amministratore abbia
votato per qualcosa che può creare danno patrimoniale ad una società
altra con cui è in affari a qualche livello dimostrabile…questa è
la tipica conversazione che avviene nei controlli o con i
commercialisti poco versati nel no profit, cosa quest’ultima
assolutamente perdonabile dal momento che non esiste un canale
formativo riconoscibile per questi argomenti.La lista si potrebbe allungare a dismisura, se continuassi, ma il mio obiettivo qui è
quello di far capire la situazione in cui ci troviamo e non quella di
deprimere.E’ ovvio che la legge cresce con le esperienze comuni e lo è altrettanto che non
possiamo fingere che, non essendoci una norma ad hoc, siamo
scioccamente “liberi” di fare tutto quello che non è formalmente
vietato. Il punto però qui è che la mentalità che viene adottata
non è quella di configurare il diritto per acquisirlo a favore
dell’espressività sociale ma, al contrario, è quello di piegarlo
per limitare qualcosa percepito come dannoso e peggio è quando
questa mentalità riesce in qualche modo a tirare dalla propria parte
organi decisionali di rilevanza amministrativa, togliendo qualche
pezzetto di legge regionale, aggiungendo qualche parolina giusta
(sbagliata) a dare spazio alle interpretazioni più favorevoli a
questa mentalità. Il sogno di chi incontro sembra essere quello di
trasformare tutto in un colossale “diritto della strada” dove ad
ogni infrazione si dà un nome e si procede a sanzionare senza reale
possibilità di appello e di ragionamento alternativo: una sorta di
legge primitiva dove esiste solo un diritto unico ed inequivocabile
più il resto che è “tabù”, cioè indiscutibile, intrattabile,
impresentabile e unicamente da rigettare. Così la finezza del
diritto viene sacrificata all’ordine del bastone, dove vale di più
impedire che aiutare e, dove è meglio stare fermi, piuttosto che
darsi da fare. Ma c’è di più.Il sistema della nostra giurisprudenza è al collasso, ci sono processi che non
saranno mai celebrati perché non c’è spazio e tempo per
trattarli, ce ne sono altri che sono stati svolti con un percorso
talmente tortuoso da non essere più riconoscibile, tutto sembra
normale, in questo contesto, e semplicemente non lo è e così
succede che, anche quando abbiamo delle ragioni, dobbiamo temere di
esporle e/o di essere coinvolti in quei meccanismi che sono veramente
inintellegibili ai più e i pochi che si sanno muovere in questi
meccanismi oscuri sembrano a proprio agio in mezzo allo strazio delle
menti e degli animi, giustificando questa situazione per mezzo di una
semplice normalizzazione…basta conoscere le leggi e sei a posto,
sembrano suggerire…L’aver prodotto un complesso normativo che ammonta a oltre 160mila norme e l’aver
creato un sistema di riconoscibilità del diritto che può passare
solo attraverso un bel processo che ovviamente toccherà interessi
personali e diretti di qualcuno, hanno reso questa risorsa sociale
praticamente inutile per noi comuni cittadini e da temere e fruibile
solo per chi è dotato di grandi risorse economiche, potendo
sostenere percorsi legali in cui viene sospeso il giudizio automatico
destinato ai più e ripensato in modo almeno formalmente più
favorevole.Io non invito nessuno ad affrontare frontalmente questo moloch del diritto
costituito ma a tenerne conto e il lavoro che ci attende è quello
che attende chiunque voglia davvero partecipare responsabilmente ad
un cambiamento collettivo degno di questo nome: dobbiamo elaborare un
sistema di smontaggio che, pezzo a pezzo, ci ridia il senso della
socialità, ben consapevoli che, se siamo animati da buone
intenzioni, buon senso, amorevolezza e capacità umane, non potremo
incontrare una forza contraria che ci ostacola ma solo una cattiva
rappresentazione dei fatti e allora partiamo da questo ed elaboriamo
per tutto quello che facciamo una pratica ben condita di senso
civile. Non potrà essere illegale, né da temere da parte di
chiunque e tanto meno da ridimensionare se si vuole evitare di
generare sofferenze sociali inutili.Di questi tempi si parla tanto di fascismo e di antifascismo, si discute ancora di cosa
sia genuinamente qualificabile come “fascista” e cosa non lo sia;
trovo che il vero fascismo, quello di cui non ci siamo liberati ma
che sottilmente è presente in ogni democrazia, anche se formalmente
evoluta, stia in almeno tre fatti: la mancanza di rispetto per le
diversità e la propensione per un modello unico di sviluppo
omologante, la credenza che la competizione sia il meccanismo
selettivo più adeguato a sostenere l’evoluzione sociale e non la
promozione della partecipazione sociale di tutti, l’idea per la
quale l’ordine viene prima del senso e che allo scopo di ottenere
“ordine” tutto diventa sacrificabile.Noi, armati di un semplice diritto di esistenza e innamorati del desiderio di stare e
vivere meglio, non potremo evitare di rappresentare con le nostre
vicende un pezzo di diritto all’agire sociale per costruire meglio
la società nella quale abitiamo.
Questo sì, è proprio un nostro diritto.
Francesco Bernabei






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