
Non sarà una sorpresa questo titolo per chi ha visto il film “Le vite degli altri” (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck e io davvero non mi sento di “spoilerare” nulla di un lavoro tanto degno ma, per far capire il seguito, posso dire che “Sonata per gli uomini buoni” è il titolo del libro, ovviamente di fantasia, con cui il regista si congeda dal pubblico alla fine del film quando uno dei personaggi si rende conto di quanto aiuto abbia ricevuto da un altro uomo in nome della giustizia, quella vera, e comprende che costui, contrariamente a quanto poteva sembrare, era, lui sì, proprio un uomo buono.
La nostra educazione ci ha portati a riconoscere il valore della dirittura morale ma non dell’etica: è giusto essere corretti verso gli altri ma non serve essere troppo etici in un mondo-sistema dove, in fondo, ciascuno si arrangia come può.
Recentemente ho avuto un’interessante discussione con una dirigente scolastica di una scuola secondaria di secondo grado che accoglie oltre mille studenti che, di fronte ad un’ingiustizia piccola ma abbastanza palese, ha ritenuto che fosse utile non fare nulla e ricordare ai ragazzi che “la vita è dura” e che per questo occorrono i valori della fatica e del sudore, quali elementi etici imprescindibili per stare in società.
Il percorso scolastico che ancora raggiunge i nostri figli prevede il concetto di adeguamento alle richieste anche se queste non sono ragionevoli ed è di ieri la notizia giornalistica per cui una liceale ha scelto la scena muta all’interrogazione dell’esame di stato in segno di protesta per il maltrattamento subito da tutti durante gli scritti di greco in cui sembrano essere fioccati i 3 a coronamento dei cinque anni di fatica. In questi ultimi due anni, sono successi episodi vari in cui i ragazzi hanno messo in evidenza il malessere che si prova ad essere trattati da perfetti idioti in un sistema che non valuta nulla se non i voti. Ci sono state fughe di massa dai licei di Milano, Torino e Genova, a Milano addirittura un picchetto dove un professore esasperato si è fatto largo ad ombrellate, stando a quanto riferiscono i giornali…i nostri ragazzi non sanno forse esprimersi ma di certo noi non li ascoltiamo e così possiamo continuare imperterriti senza curarci di cambiare nulla.
Penso tuttavia che sull’esistenza del malessere nessuno si permetta di negare ma, se l’etica è quella del sudore, della fatica e dell’accettazione del male in quanto facente parte del sistema allora chi può dirsi buono? E che senso avrebbe poi essere buoni in un luogo comune che richiede solo di adeguarsi e di non disturbare troppo? Senza sobbarcarsi di troppa fatica, basta un pizzico di moralità, proprio per non sbracare, un tot di furbizia per non farsi superare dagli altri e stare alle regole per come si può e, vualà, la società è servita!
La scuola così diventa l’addestramento allo stare in società, la fabbrica dei “buoni” cittadini, quelli che non protestano, che stanno al proprio posto, non disturbano e soprattutto rispettano le autorità e l’ordine costituito, anche quando questi non sono proprio coerenti. L’altro luogo di addestramento era la caserma ma, da quando non c’è più la leva obbligatoria, il militare ha cessato di essere un luogo di formazione della gioventù. C’è chi propone di ricreare il sistema. Tanti anni fa, quando ero ancora obiettore di coscienza, una sera ci fu un confronto involontario in un circolo ARCi fra servizio militare e servizio civile e la cosa interessante era che la maggior parte dei convenuti che erano stati nelle caserme, sosteneva la necessità del servizio militare e ricordo che le motivazioni addotte erano del tipo “prima ero troppo ingenuo”, “ho imparato che cosa significa farsi valere”, “conoscere il rispetto dei più anziani”…insomma l’apologia del nonnismo elevato a sistema rieducativo.
“Buono” oggi ricorda più un concetto di imbelle, di innocuo al punto da non rappresentare ostacolo alla licenza altrui e la paura atavica dell’essere esposti al ludibrio sociale è proprio il motore del bullismo che presto conosciamo a scuola, una scuola che chiede di adattarsi anche a questo e che interviene solo quando le cose diventano evidenti o proprio inaccettabili. Il bullismo comunque si trasferisce all’esterno e lo ritroviamo nelle diverse occasioni sociali, il bullo cessa di essere quello che ci ruba la merenda o ci “smutanda” e diventa il manager d’azienda che ritiene di poterci mettere in riga con frasi degne del carcere e che si aspetta totale e omertosa adesione ad ogni richiesta.
La media delle persone attraversa questo percorso (de)formativo come fantasmi non esistenti, fino a quando, prodotta una certa “scorza”, altra interessante espressione riportatami da un preside di scuola media secondaria di primo grado come necessità imprescindibile allo stare in società, quel che resta dell’io trova una forma di esistenza nella resistenza al dolore e al male. Così ci si convince che la vita è dura e che non c’è soluzione al problema del male, lo si deve accettare per andare avanti, sì, ma dove?
Proprio qui sta il punto: l’esistenza è degna di essere vissuta solo quando si ha direzione e progettualità esistenziale, altrimenti che senso avrebbe anche resistere? Ed è proprio l’etica a dirci dove andare e darci completezza di espressione…essere buoni allora non è opzionale, è sostanziale e adattarsi a ciò che non è buono, per mancanza di idee o di stile, diventa rimandare i compiti dettati dalla necessità del cambiamento ad altra epoca/generazione e per almeno tutto il tempo per cui sarà possibile/sostenibile che questo sia il modo migliore di stare al mondo.
Incontro tanti insegnanti che mi dicono che loro adorerebbero stare nelle scuole parentali ma che non possono per ragioni pratiche (contratti e stipendi inadeguati) e anche perché ritengono che il sistema vada cambiato dall’interno…ovvero l’eterno dilemma del cambiamento sociale: dentro o fuori dalle istituzioni? Dentro = sicurezza economica ma perdita dell’anima, fuori = tutta anima ma poco “corpo” perché è a rischio la sopravvivenza economica: la stragrande maggioranza vota per il corpo e davvero non vedo come potrebbe diversamente se il dilemma è in questi termini.
Ma l’anima è proprio quell’essere “buoni” che sembra la scelta più difficile del mondo perché sembra di andare contro il mondo.
Credo e coltivo una terza via che non prevede combattere contro qualcuno o qualcosa né l’adeguarsi a tutto perché diventato “normale” ma che consiste semplicemente nel far valere un senso che deve essere esistenziale e che non può essere contraddetto con ragionamenti speciosi cioè del tipo che sembrano veri in quanto verosimili. Questo senso conferisce consistenza alla vita e ci permette di stare meglio e di comunicare benessere: quando avviene il contrario, ci fa fermare e ci obbliga alla riflessione.
L’educazione parentale si deve occupare dell’essere buoni in questo senso e il primo nodo da sciogliere è l’attenzione alle scelte dettate dalla sopravvivenza che conducono direttamente alla competizione e all’egoismo, pilastri delle norme non scritte ma prescritte per l’attuale convivenza civile.
L’altra cosa che giudico fondamentale è la gioia nell’apprendere e nello stare insieme, non il semplice piacere ma proprio il sentirsi meglio ad apprendere cose nuove, acquisire competenze/abilità e imparare a stare con gli altri potendo contare su di loro e su noi stessi come autentiche risorse, praticamente il contrario di quello che avviene in società oggi.
Non è certo questo il luogo nel quale discutere di etica come assoluto e già ritengo di aver preso una spazio anche troppo ampio per un blog che tratta di educazione parentale ma non credo potremo mai fare qualcosa di veramente buono se ci limiteremo a riproporre l’esistente, adeguando i nostri progetti alle semplici richieste degli esami di idoneità.






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