L’obbligo di partita IVA per le associazioni

Come tanti sapranno, siamo prossimi ad un certo cambiamento nel contesto delle associazioni o, meglio, ad un passaggio che farà una grande differenza da un certo punto in poi in termini di oneri e burocrazia.

L’obbligo di partita IVA che era stato già tentato nel 2019 e subito abortito nel 2020, è stato imposto con un colpo di coda del 2021 dove ci si accordava un paio d’anni per stabilire come/quando/quanto.

E’ di ieri la notizia che tutto questo slitterà al 1° gennaio 2026.

Non scendo nei particolari dell’iter di legge che è stato chiarito da tanti articoli del web così che qualsiasi maniaco della giurisprudenza potrà trovare facilmente i passaggi del percorso legale e, per una volta, mi concentrerò su quello che, a mio giudizio, non è chiaro alla maggioranza degli interessati.

Il fatto che si passi da un regime di esclusione ad uno di esenzione significa che le attività oggetto di esclusione non rientrano in nessun caso nel quadro di quelle assoggettate ad iva, mentre le altre, quelle esentate, ci rientrano ma non pagano la tassa prevista.

A livello pratico, “esclusione” significa non occuparsi di fatture e poterlo fare senza conseguenze, “esenzione” significa doversene occupare ed emettere fatture con una dicitura del tipo “esente ai fini iva ai sensi del Decreto tal dei tali”: nel primo caso, abbiamo totale libertà, nel secondo, invece, si configura obbligo di emissione con conseguente tracciabilità dei rapporti in un formato elettronico che rende poi giudicabile, anche in seguito e nelle opportune sedi, quello che è stato fatto. E’ un problema questo? No, non lo è, dato che non abbiamo veramente niente da nascondere – e lo dico nella piena consapevolezza di quello che intendo e che chiunque potrebbe capire – e per la pochezza della gestione economica delle attività sociali tipiche dell’associazionismo medio.

Il tema, semmai, riguarda l’ennesima complicazione burocratica che ricade sul nostro mondo e che va a rendere più difficile la vita a gente che, in fondo, non fa niente di male e tutto di bene e davvero non si comprende come questi giri economici possano risultare rilevanti per tanti fatti se messi a confronto con ben altre grandezze di altri settori, primo fra tutti quello dell’alta finanza. Prego chi legge di non farsi tentare dalle sirene del “diritto al controllo” o del “farla finita con tutti i contesti dove la licenza di agire potrebbe creare malversazione”: tutti devono pagare le tasse, è un adagio che impariamo da bambini, ma le tasse rientrano negli ambiti specifici del Testo Unico elaborato per questo, il TUIR, e quindi nei soli seguenti casi: redditi fondiari, di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, di impresa e redditi diversi.

Nessuno di questi riguarda l’associazionismo ma sempre nel TUIR troviamo una sezione dedicata di articoli, il Titolo II (imposta sul reddito delle società)/Capo III (Enti non commerciali residenti)/artt da 143 a 150, che sono per noi di capitale importanza.

Si dicono tante cose in questi articoli, tante che non potremmo citarle tutte qui e credo che una sana lettura di queste paginette sarebbe raccomandabile per chi vuole capire il senso delle disposizioni di tipo economico per i nostri enti. Mi soffermo sulle principali.

Anche gli enti non commerciali di tipo associativo sono soggetti a determinazione del reddito come gli altri enti ma da questo reddito vengono escluse da subito alcune categorie che non sono commerciali per definizione perché non ricomprese all’art 2195 del Codice Civile, più altre espressamente citate tra cui la cessione di beni e servizi ad associati per fini previsti dallo statuto dell’ente e, quindi, definite per questo, “istituzionali”. Questo vuol dire che non ci sono tasse su questi redditi che però sono comunque considerati tali e non veramente esclusi da tassazione. Ma c’è dell’altro per noi rilevante.

L’art 148, il più importante per noi, dice che sono sempre da ritenersi commerciali – e pertanto soggette a tutta la tassazione che ne segue – le attività che prevedono “corrispettivi specifici”, anche se svolte come sopra cioè in attuazione delle finalità istituzionali verso associati. Si fa qualche sconto ad alcune categorie associative ma sostanzialmente il concetto rimane per la media delle associazioni culturali e altre.

In breve, il corrispettivo specifico è qualsiasi somma venga giustificata come “prezzo” di prestazione o cessione di bene dando origine al diritto di ricevere di più o di meno in relazione a quanto si è pagato effettivamente. I corrispettivi delle associazioni devono essere generici, non specifici, e, per essere considerati tali, devono essere direttamente imputati sulla base dei costi. Per essere chiari: dopo aver capito quanto costa l’attività che si intende erogare ai soci, questo costo lo si divide fra i partecipanti esattamente per come potrà essere valutato in stima o a consuntivo con tutte le modalità scelte dal buon senso. Se, invece, si stabilisce che il valore di quella prestazione/cessione di beni è fissata per sempre, come un prezzo, e questo non varia all’aumentare dei partecipanti o in relazione ad un aumento dei costi, si realizza necessariamente un utile…è questo che intende il legislatore con la cabala di parole che spesso usa con nostra somma infelicità e si può così ben comprendere perché i corrispettivi specifici, pur non essendo vietati agli enti non commerciali, non determinano esenzione fiscale.

L’evitamento del meccanismo del prezzo ci mette abbastanza al sicuro ma “al costo” di essere in grado di spiegarlo e provare che quello che facciamo è di fatto un corrispettivo generico. Ci sono attività che non potrebbero essere veramente trattate così, come la cessione di prodotti di editoria, di alimenti e bevande o l’organizzazione di attività di supporto alla gestione sociale per quanto l’associazione si trova a fare in alcune o determinate occasioni (costi di trasferta, viaggi in senso turistico etc), queste cose sono di fatto commerciali perché oggetto di corrispettivi specifici. Le eccezioni ci possono essere quando la cessione è fatta con logica generale come nel caso della somministrazione di pasti e bevande agli indigenti, tuttavia consentita in regime di esenzione solo alle Associazioni di Promozione Sociale e perché? Perché per via dell’iscrizione al RUNTS ovvero al Registro Nazionale che raccoglie gli Enti di Terzo Settore, la controllabilità di tutto questo passerebbe per altri canali…

Se mi è riuscito di essere chiaro e non noioso o peggio, diventa evidente che le nostre attività parentali dovrebbero smettere di parlare di retta, costo mensile, contributo associativo specifico per il mese e individuare per ogni circostanza il quadro del corrispettivo generico da applicare ma sempre nella logica del costo annuale stimato diviso per i partecipanti noti.

Quando la cosa sarà descritta e agita in questi termini, le nostre associazioni, nei confronti dei soci, potranno limitarsi ad emettere una fattura elettronica esente iva ai sensi del decreto 146/2021 etc e vivere relativamente felici nel paradiso che il Fisco pensa di aver costruito per noi.

Per il resto, per quello che riguarda invece le attività commerciali e quindi gli incassi da assoggettare a IVA più tasse varie, ci saranno opportune spiegazioni di regimi forfettari e altro ancora su cui verremo istruiti a tempo debito e , a questo punto, entro la data stabilita del 1° gennaio 2026.

Mi rimane onestamente il dubbio che tutto questo sarà trasformato da commercialisti e pubblici ufficiali nell’ennesimo obbligo di legge per cui è meglio pagare tutto e di più “per non avere problemi” ma ho fiducia nella capacità della bella gente che conosco e che stimo in grado di capire bene e di non lasciarsi prendere da timori legali ingiustificati data anche l’esiguità di quello che facciamo sul fronte della rilevanza per gli interessi pubblici.

Una replica a “L’obbligo di partita IVA per le associazioni”

  1. Avatar Simonetta
    Simonetta

    buonasera dove è il link della petizione per firmare? Che non voglio nessuna partita Iva sugli insegnamenti didattici, ne socio culturali ne sportivi grazie

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Francesco Bernabei

Francesco Bernabei si occupa di sviluppo sociale con lo specifico scopo di avviare e partecipare a processi per la prima ideazione e la promozione di idee, pratiche e percorsi di interesse collettivo. In passato ha collaborato a processi che hanno riguardato l’obiezione di coscienza e il servizio civile, la finanza etica, l’economia, l’europeismo, la responsabilità d’impresa. Attualmente è impegnato nel contesto dell’educazione e dell’istruzione parentale, del diritto naturale e delle pratiche per il migliore utilizzo delle risorse ambientali.

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